Il ganglio odierno, ancora una volta non inedito e particolarmente prolisso, è la sintesi, camuffata sotto forma di una quasi parabola, della mia esperienza di inclusione-esclusione in gruppi social. È la cronaca della prima grande delusione.
Mi piace stare per conto mio. Le persone a volte mi piacciono altre volte mi deludono. Convengo che la cosa sia reciproca: sono consapevole, cioè, che anch’io -contrariandoli con parole, opere e omissioni- disattendo spesso le aspettative degli altri.
Per quanto riguarda i rapporti interpersonali la vita mi appare come un gioco di società. E a me i giochi di società, francamente, dopo poco stancano. Sono passatempi che cerco di evitare, quando posso, per due ragioni. Primo è che non sono competitiva, quindi non mi interessa vincere. Secondo mi aspetto sempre che qualcuno, nel migliore dei casi, vada via brontolando, nel peggiore si allontani furibondo gettando tutto all'aria: entrambe le ipotesi non mi entusiasmano. Non sarò mai la prima a proporre un torneo di Risiko sebbene, puntualmente, finisca con il partecipare al gioco piegandomi alle insistenze di chi, con entusiasmo e buona volontà sgombra il tavolo, prepara il tabellone e supplica gli amici di scegliere il proprio segnalino.
Si giocano tante partite nella vita. Mi pare che ogni singola mano mi induca a rinserrarmi sempre più profondamente in me stessa. Finirò per trasformarmi in uno sconciglio.
Ricordo che, tanto tempo fa, un’amica m’invitò ad andare in un parco giochi per passare del tempo insieme ad altri coetanei.
Mi propose un pomeriggio all'aria aperta, non una sfida al Monopoli, con bambini di ottima famiglia, ben educati e rispettosi; niente cerchi intorno a un tavolo, con il rischio che finisse malamente sconquassato. “Proviamo” -mi dissi- “non posso vivere perennemente chiusa in un eremo in compagnia dei miei pensieri e dei libri. Chi parla da solo finisce per darsi sempre ragione. Devo concedere una possibilità al mio prossimo.”
Raggiungemmo così gli altri intenti già nel gioco. Per gran parte di quel pomeriggio mi divertii e molto.
Imparai a lasciarmi andare veloce giù dallo scivolo, mentre prima ne avevo timore.
Tutto, per un lungo, piacevolissimo momento fu come doveva essere.
Qualcuno, poi, suggerì di spostarsi tutti insieme alla giostra e lì cominciarono i guai.
L’incantesimo si ruppe, nonostante fossimo su un bel prato, nonostante fossimo desiderosi di partecipare a quella libertà, nonostante volessimo vivere il migliore dei pomeriggi possibili.
Bisognava stabilire i turni - non ci si stava tutti sul gioco- e fu subito chiaro che nessuno fosse disposto a rinunciare al primo giro.
Alcuni poi avevano cominciato a spingere in senso orario mentre altri dal verso opposto. Anche sulla velocità nacquero questioni: c’era chi voleva girare velocemente e chi, soffrendo il mal di mare, avrebbe avuto piacere ad andare piano. Le mani strette intorno alla ruota centrale (che bisogna girare contemporaneamente perché la giostra acquisti velocità) persero il sincronismo e si sovrapposero pericolosamente. Qualcuno fu involontariamente colpito a qualcun altro venne il male di stomaco.
Le persone come me, prive di talenti e che non hanno ne’ insegnamenti da impartire, ne’ patrimoni da spartire possono più facilmente, per via della loro goffaggine, fare del male al prossimo che non giovargli. Per non far danni a quel punto sgusciai via, sicura che nessuno avrebbe notato l’assenza.
Dopo alcune ore, per curiosità, pura e infantile curiosità, ritornai a controllare come fosse finito il gioco.
La magia era del tutto sparita e la maggior parte degli amici rincasata.
Torno spesso con il pensiero a quel pomeriggio. Mi siedo su una panchina di fronte al parco giochi devastato dalla cappa di silenzio e rimugino su ciò che è stato e ciò che sarebbe dovuto essere. Rifletto su quel prato verde e fiorito, trasformatosi per noi, quel giorno, in un deserto: altri bambini - sono certa- gli ridettero vita.
Eppure ancora mi rammarico all'idea che fossimo solo dei mocciosi e non sapemmo comportarci in maniera consona. Mi colpì che molti andassero via senza presentare le proprie scuse, al contrario attendendone dagli altri. Fui amareggiata che si continuassero a puntare gli indici gli uni verso gli altri, persino mentre si accennava il saluto d’addio. Eravamo dei bimbi che si atteggiavano a fare i grandi, fu naturale che, sentendo ciascuno la coscienza a posto, ci auto-assolvemmo o invocammo la legittima difesa.
Chi rompe -anche solo un precario equilibrio- deve ammettere, se non il dolo, la propria colpa; a quell'età non potevamo capirlo.
Ciascuno nel corso del gioco avrà avuto, certamente, un momento propizio per fare la cosa giusta nell'interesse superiore di tutti, ma non eravamo ancora saggi a tal punto. Salomonicamente, chi voleva andare a destra, avrebbero potuto lasciare il parco a chi aspirava alla via di sinistra o viceversa. Ma si sostenne che l’area giochi fosse pubblica, vale a dire di tutti e che, dunque, non c’era un gruppo che avesse più diritto a restarvi di un altro. Si continuò a discutere, ma nessuno fu così stanco dei battibecchi da cedere. Posso solo immaginare la delusione della mia amica che aveva organizzato il pomeriggio al parco.
Cosa mi sia rimasto di quella avventura e delle tante altre, simili, vissute in seguito è facile intuirlo: la mia determinazione a diventare sconciglio.
Si è rinforzata l’idea che la continenza verbale sia un esercizio di umiltà. Professo da allora l’utilità del silenzio, che pratico religiosamente. Non taccio mai per presunzione o arroganza, o per non dare soddisfazione agli avversari quanto piuttosto perché non reputo che la mia opinione valga più di quella altrui. Taccio per rispetto, perché credo nel potere umiliante di certe espressioni, nella capacità offensiva di alcune battute, specie se pronunciate in preda all’ira. Non mi convincerò mai che mortificando il prossimo gli avrò dato una lezione, almeno non nell’accezione di avergli insegnato qualcosa di buono. Resto convinta che anche gli esempi siano egregi precettori. Le incomprensioni sono sterili, non daranno mai frutti. Gli scontri verbali, i presunti chiarimenti, il batti e ribatti, non aiutano ad andare oltre se stessi. Creano, viceversa, solchi profondi, in cui ciascuno erige le fondamenta degli invalicabili muri del sé. Scegliamo sempre con cura le parole che vogliamo ci rappresentino, le ceselliamo finemente affinché divengano la migliore bandiera , piantata per segnare il nostro territorio. Il modesto parere, quanto mai fosse modesto, rimane pur sempre cosa nostra, cioè che ci appartiene. Che ci è costato fatica e sudore: anni di studio, di osservazioni, di riflessioni introspettive. Anch’esso ricade nell’asse delle nostre proprietà ed è legittimo che, come un qualsiasi altro oggetto, lo si difenda anche a costo di offendere ciò che, pensieri o dignità non importa, sia di altri.
Ripenso un ultima volta al pomeriggio trascorso alle giostre e provo a riassumerne il significato in maniera più elementare, vale a dire, più consona alla spontaneità dei bambini. Magari semplicemente c’era parso di aver giocato tutti insieme senza contrasti. Nella realtà avevamo, invece, costituito gruppetti di due o tre amichetti e i giochi nei quali ci eravamo tanto impegnati restavano, al di là delle apparenze, più che di gruppo, individuali.
mercoledì 12 maggio 2021
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