Si è celebrata
nei giorni scorsi la “Giornata internazionale del Hijab”, istituita
nel 2013 da Nazma Khan, giovane originaria del Bangladesh trasferitasi all’età
di undici anni in America insieme alla famiglia. L’idea della promotrice è semplice: invitare le
donne, musulmane e non, a sperimentare per un giorno il Hijab, uno dei tanti copricapi
islamici.
Conviene ricordare che storicamente l’usanza di andare a capo coperto non è estranea alla nostra cultura, anche se oggi ve ne rimane traccia solo nell’ambito monastico.
Ricordo bene mia nonna e le altre comari che non entravano mai in chiesa esibendo le chiome. Erano, infatti, sempre attente a indossare sobri foulard, così come ad imporre alle figlie il “pizzo” bianco, quanto meno per ricevere la comunione.
Ho vissuto diversi anni in Turchia e naturalmente mi è capitato di familiarizzare con donne velate. Ho imparato che ci sono -come accennavo prima- vari tipi di velo e modalità diverse di indossarlo.
Ogni donna ne fa una personale interpretazione e dal modo in cui lo sceglie, lo indossa, lo esibisce spesso lascia intuire se è per lei un pesante obbligo o viceversa una libera scelta. I banchi dei mercati ne offrono ampi campionari e anche l’industria internazionale della moda pare che recentemente abbia fiutato l’affare. I primi sono stati Dolce e Gabbana che ne hanno presentato un’intera collezione per le clienti orientali.
In Turchia, quando ci vivevo io era ancora in uso il divieto imposto da Ataturk di coprire il capo nei luoghi pubblici. Prima di entrare a scuola o nelle aule universitarie così come in ogni altro ufficio o palazzo governativo, le donne dovevano togliere il copricapo.
Erdogan lo ha recentemente rimosso in nome della libertà individuale.
Il confine tra la libertà e l’ obbligo dovrebbe essere netto. In una società democratica ciascuna donna possiede gli strumenti culturali per autodeterminarsi. La scelta del Hijab rientra nel pieno diritto di ciascuna di decidere per sé.
Tuttavia per molte musulmane – e non ne faccio una questione religiosa, bensì di tradizione- pur se trapiantate in paesi ove vige la democrazia, il primo nucleo societario in cui si muovono resta quello familiare. Può ben accadere che, a dispetto della possibilità garantita ad esse dalla legge di operare le proprie scelte in autonomia, debbano invece subire le imposizioni dei parenti.
Sono sinceramente combattuta dunque tra il divieto e la libertà di indossare il velo.
Il primo mortificherebbe naturalmente la donna che sceglie consapevolmente il rispetto della tradizione, ma potrebbe d’altro canto aiutare tutte le altre, prigioniere degli obblighi famigliari, nel cammino verso l’emancipazione. Sulla seconda, la libertà, non c'è nulla da aggiungere, salvo che è sempre in grande pericolo se la si utilizza come scudo per mistificare oppressioni e soprusi.
Conviene ricordare che storicamente l’usanza di andare a capo coperto non è estranea alla nostra cultura, anche se oggi ve ne rimane traccia solo nell’ambito monastico.
Ricordo bene mia nonna e le altre comari che non entravano mai in chiesa esibendo le chiome. Erano, infatti, sempre attente a indossare sobri foulard, così come ad imporre alle figlie il “pizzo” bianco, quanto meno per ricevere la comunione.
Ho vissuto diversi anni in Turchia e naturalmente mi è capitato di familiarizzare con donne velate. Ho imparato che ci sono -come accennavo prima- vari tipi di velo e modalità diverse di indossarlo.
Ogni donna ne fa una personale interpretazione e dal modo in cui lo sceglie, lo indossa, lo esibisce spesso lascia intuire se è per lei un pesante obbligo o viceversa una libera scelta. I banchi dei mercati ne offrono ampi campionari e anche l’industria internazionale della moda pare che recentemente abbia fiutato l’affare. I primi sono stati Dolce e Gabbana che ne hanno presentato un’intera collezione per le clienti orientali.
In Turchia, quando ci vivevo io era ancora in uso il divieto imposto da Ataturk di coprire il capo nei luoghi pubblici. Prima di entrare a scuola o nelle aule universitarie così come in ogni altro ufficio o palazzo governativo, le donne dovevano togliere il copricapo.
Erdogan lo ha recentemente rimosso in nome della libertà individuale.
Il confine tra la libertà e l’ obbligo dovrebbe essere netto. In una società democratica ciascuna donna possiede gli strumenti culturali per autodeterminarsi. La scelta del Hijab rientra nel pieno diritto di ciascuna di decidere per sé.
Tuttavia per molte musulmane – e non ne faccio una questione religiosa, bensì di tradizione- pur se trapiantate in paesi ove vige la democrazia, il primo nucleo societario in cui si muovono resta quello familiare. Può ben accadere che, a dispetto della possibilità garantita ad esse dalla legge di operare le proprie scelte in autonomia, debbano invece subire le imposizioni dei parenti.
Sono sinceramente combattuta dunque tra il divieto e la libertà di indossare il velo.
Il primo mortificherebbe naturalmente la donna che sceglie consapevolmente il rispetto della tradizione, ma potrebbe d’altro canto aiutare tutte le altre, prigioniere degli obblighi famigliari, nel cammino verso l’emancipazione. Sulla seconda, la libertà, non c'è nulla da aggiungere, salvo che è sempre in grande pericolo se la si utilizza come scudo per mistificare oppressioni e soprusi.