mercoledì 10 febbraio 2016

Non ci sono le mezze infanzie di una volta.

Ah, l’infanzia. Un periodo non facile per nessuno. Figurarsi per chi, come la sottoscritta, venendo da un quartiere periferico della più grande città del sud, si è trovata  giovanissima e in terra straniera  a dipanare l’intricata matassa di quella altrui.
Capitoli di aneddoti degni di una piccola Odissea: e si, perché si è trattato, in fondo, di un lungo periplo, sebbene metaforico, intorno ai precetti vigenti a tal riguardo nella penisola  natia. Naturalmente protagoniste le mie due creature che hanno, loro malgrado, patito la mia inesperienza. Perché, vedete, non è una passeggiata allevare i figli, per chi è lontana dal nucleo matriarcale avito, mediando tra la cultura della terra di origine e quella dell’altro paese che ti accoglie. Me ne sono dovuta inventare molte, in sempiterna diretta telefonica  con mia madre, terrorizzata che da un momento all’altro le ammazzassi le nipoti.
La prima volta che ho portato la maggiore dal pediatra, ad esempio, il britannico esemplare  più che dal caso clinico rimase incuriosito dalla “maglia della salute” in cui  avevo infagottato la piccina. E dire che io mi sentivo tranquilla di non fare figure da cafona. Avevo infatti a lungo ragionato sulla lunghezza più opportuna delle maniche del capo. Considerata la quantità di neve fuori a pensarla come nonna sarei stata obbligata a quelle lunghe. Mia madre avrebbe scelto le mezze, l’inglese non ci avrebbe pensato affatto. Io che –dopo numerosi giri di shopping in tutto il circondario- avevo reperito due canottierine in cotone, ero stata forzata ad una smanicata opzione . Il medico esterrefatto sfilando l’indumento mi rivolse testuali parole: - “capisco, questa è la maglia che la mamma italiana fa mettere al figlio quando lei ha freddo”; a me più che sarcastica sentenza mi suonarono come una bocciatura senza appello.
Il meglio l'ho dato però con l’alimentazione.
Come in tutte le storie di Matrioske che si rispettino io fui svezzata e poi  nutrita secondo le ferree leggi alimentari della nonna. La lontananza e la grande differenza di usanze locali hanno, invece, privato me di una necessaria guida e mia madre del ruolo di supervisore tanto ambito.
C’è da premettere che quando io ero bambina molti erano i cibi, in famiglia, interdetti ai piccini.  Prendendo in parola la raccomandazione del medico alla gradualità, lo svezzamento a casa mia  fu affare lungo. L’insalata, ad esempio, mi fu inserita –credo- non prima dei 10 anni. Non ho assaggiato le zucchine che dopo i 15, e non sto a dire dei fagiolini, ai quali ho avuto accesso solo dopo la patente. Scherzi a parte, su tutto il mondo vegetale si estendeva la grande ombra verde dei “riscinzielli”, leggendari mal di pancia che a detta degli anziani erano mortali.
Impavida,  giovane e sola, in terra germanica, ho vinto l'atavica resistenza contro omogeneizzati alla carota  conferenti alle  bimbe  una leggera sfumatura di arancione. Ho superato il taboo di dare loro da mangiare vasetti alla cipolla, avendo ben in mente che alla  prima Genovese io ero stata ammessa solo dopo la  comunione.
Ho tremato quando le figliole, imitando i coetanei, hanno preteso la prima insalata, e poi i peperoni -per giunta crudi- e i broccoli e le melenzane. Ho rischiato l’infarto al primo ristorante indiano. Mi aspettavo l'arrivo dei servizi sociali ad addebitarmi la colpa grave di  aver  fatto mangiare loro, prima dei 30 anni, pollo al curry .
Il dramma più grosso -lo confesso- è stato infrangere il dogma del primo piatto. Le ho sorvegliate per giorni, in attesa che mi deperissero a morte sotto gli occhi, perché, adeguatesi  ormai all’ inconcepibile costume mitteleuropeo, non si nutrivano più quotidianamente di  pastasciutta.
E si, amici, me la sono vista brutta!


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