lunedì 8 febbraio 2016

Mistero svelato

Le 13,45. In perfetto orario sulla tabella di marcia. L’atterraggio –ha controllato su internet prima di partire da casa- è previsto a meno 10.
Farebbe carte false pur di non utilizzare il parcheggio dell’aeroporto. Tre euro e mezzo all’ora e frazioni. Roba da matti. L’ultima volta ha dovuto pagare l’intero importo anche se è stata una questione di attimi. Così ora si è inventata di partire da casa in ritardo rispetto a quanto le imporrebbe la sua ansia anticipatoria. Nel dilemma se risparmiarsi disagi psicologici o salvare qualche soldino non c’è storia: vincerà sempre la vile pecunia. Adesso c'è il pedaggio della tangenziale e infine l’ultimo tratto di strada. Al casello sceglie la fila più lunga così da ammortizzare la manciata di minuti che serviranno a lui per scendere dall’aereo, prelevare il bagaglio e portarsi nel consueto luogo d’incontro, vale a dire il marciapiede sulla sinistra dopo lo spazio riservato ai taxi; è lì che ormai si dà appuntamento tutta la città per il recupero “al volo”. Imbocca il rettilineo del viale “Ruffo di Calabria” lentamente, perché la telefonata tarda ad arrivare. Si appoggia al tratto di “sosta vietata” dove  parcheggiano tutti, confidando che la buona sorte non  faccia arrivare i vigili urbani. L’ultima volta che la fila di auto è stata costretta a spostarsi ne è venuto fuori un carosello intorno alla rotonda a metà tra una scena demenziale e un numero da circo.
Non ha ancora azionato le 4 frecce e messo a folle che sente nella tasca la vibrazione del cellulare. Rimette in moto e innesta la marcia, esce dal buco tre le due auto dove si era parcheggiata ma il telefono continua a squillare, segno che lui ha qualcosa da comunicare. Vuole avvisarla di non muoversi ancora; ne ha almeno per un altro paio di minuti. Lei si prepara a rientrare nello spazio appena lasciato, ma non fa in tempo ad azionare la retromarcia che  velocissima un’altra macchina ci si infila. Dalla nuova postazione in doppia fila cui è stata forzata, attraverso lo specchietto retrovisore, butta l’occhio incazzata al cretino  che le ha rubato il parcheggio. Con la stessa agilità con cui si è fregato il posto il deficiente esce dall'auto. Sulla quarantina, alto, bruno. Jeans e un giubbotto marrone. Mentre lo studia, incerta se urlargli contro il suo rancore, lui, aperta la porta di dietro, si immerge con la testa nella macchina a rovistare. Oddio, ma quella è una pistola! Sul fianco sinistro di lui, canna infilata nella cintura dei pantaloni, c’è un’enorme rivoltella; in realtà non sa se è enorme, non ne ha mai vista una da vicino prima d’ora. Lui, l’uomo, non se ne cura minimamente eppure sa che è ben visibile. Non indossa la maglietta della salute e il vento freddo sulla pelle gli dà la consapevolezza che camicia troppo corta e giubbino lascino quella parte del corpo e quindi l’arma a vista. Un uomo con la pistola. Lì. Davanti a lei in pieno giorno.
Esclusa ogni lagnanza circa il furto di posto subito, deve tenere a bada l' impulso di fargli notare che ha l’aggeggio di fuori. Le era venuto d’istinto di abbassare il finestrino e urlargli: - “senta, scusi, le si vede la pistola!”. Si, poi magari lui, come ringraziamento, le spara un colpo alla testa.
Ma che roba. Sarà un buono o un cattivo? Un camorrista o un poliziotto? Sarà venuto ad incontrare un contatto o a gambizzare un avversario? Una pistola. Vera. Nera. La immagina fredda poi ci riflette meglio. Deve essere così all'inizio, poi la temperatura corporea la riscalda. “E’ comunque pesante, quindi per quanto tu sia abituato a portarla –pensa- ne avverti costantemente la presenza”. Impossibile dimenticarsene. Il tizio armeggia tranquillamente  là dietro ma ne sente il peso : chissà se anche per lui rimane come una bruciatura che in sottofondo è dolorante. Agli occhi di lei è così, una bruciatura da cui è impossibile  distogliere lo sguardo. Sarà il magnetismo del male. E' la prima volta che vede un uomo con la pistola e non può fare a meno di guardare. Vorrebbe andare via, ma è elettrizzata.  Se lo ripete pure, continuamente, a mo’ di ritornello: “un uomo con la pistola”, come se lo potesse scordare.  Con l’energia dimostrata in tutte le sue precedenti azioni, che sembra parte della sua fisicità, ma con calma, lui continua a scavare sul sedile posteriore dell’auto. E se fosse solo un trucco per perdere tempo mentre aspetta che la vittima sia a tiro per sparare? I poliziotti ne indossano una – oddio, indossare, mica è una maglia che si indossa, come diamine si dice, ah, sì, portare, ma pure i killer della camorra tengono sempre “o’ fierr appriess”. Cavolo: le si è ingrippato il cervello. Solitamente non   manca di fantasia eppure ora non riesce a fare altro che avvitarsi a loop intorno a quei tre pensieri: pistola, polizia, camorra. Dovrebbe chiamare il 113? – “pronto? Volevo dire che davanti a me c’è uno con un arma. Ma infondo ha un’aria perbene. Pare tanto tranquillo.” -
Cosa si fa in questi casi?
E’ l’ultimo pensiero prima che arrivi lo squillo ad avvertirla che ora può muoversi. Parte, ma ancora è turbata. E si arrabbia con se stessa, perché quella immagine è nella sua testa e lei a volte non riesce a frenare le parole. Non è quella la prima cosa che intende dire al marito. Non lo vede da quasi un mese, vuole e deve fargli un degno “bentornato”, ma si conosce e sa che il rischio c’è: aprirà la bocca e invece delle parole già pensate, verranno fuori le altre istintive, concitate.
Lo vede da lontano, agita la mano. Accosta e lui sale. Un bacio ad occhi chiusi veloce e poi lo dice: - “C’è un uomo con la pistola dove stavo prima parcheggiata”. – “Bentornato!” – Ribatte lui e sorride. Lei naturalmente non molla e lo convince a ripassare là davanti per vedere se sia ripartito. Suo marito la conosce, sa di non avere speranza. Ora l’uomo si è raddrizzato. Stretto al petto ha un fascio di plichi e soprattutto, stretta nella mano con cui li sorregge, una paletta circolare, bianca e rossa, con la scritta “Ministero dell’interno. Polizia di Stato”. Ok, lei è finalmente  tranquilla. Tutto a posto. Possono ripartire a mistero svelato.

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