Confesso che uno dei miei sogni è di tessere una coperta con
tutti gli scampoli di conversazione rubati alla gente che incrocio per strada.
Di trascrivere, cioè, tutti i mozziconi di frasi che raccolgo mentre sono a
passeggio e farne un racconto. Credo che, seppur indirettamente, ne verrebbe un
ritratto interessante della città.
A parlare di Napoli talvolta ho timore. Non si riesce mai a
stare sul filo della equanimità. Nella perenne indagine volta a trovare il
colpevole per un male o l’altro che la affliggono c’è sempre una parte da
prendere a favore o contro qualcuno, che sia un partito politico, un amministratore,
la borghesia tutta o il popolo minuto, così spesso le conversazioni vanno su di
tono e si trasformano in litigi. Un mosaico composto da voci del popolo
-immagino- conserverebbe, in quanto semplice trascrizione, un accettabile grado
di neutralità.
Cullando la mia fantasticheria, ieri, me ne sono scesa giù
in zona decumani.
Mi ero figurata di trovare, passate le feste, una città in
disarmo, ritornata in mano agli autoctoni. Invece le strade di Spaccanapoli e
dintorni brulicavano ancora di “forestieri”.
Le orecchie, diceva la buonanima di mia nonna, sono fatte
per sentire. Le mie hanno fatto naturalmente, in mezzo alla folla di turisti,
il loro dovere. Mi sono rallegrata per i pareri entusiastici uditi e
naturalmente mi hanno punta nell’orgoglio i commenti fuori luogo di personaggi
manifestamente prevenuti, che tradivano una certa villana e supponente
arroganza. Non nego, poi, che molte delle parole “avite” sentite dalla bocca di
certuni, sotto la fredda coltre di un accento “nordico”, sono risuonate come
frecciate ferali al cuore: la sfogliatella vilipesa da una s sonora, privata
dalla sh di rito, rischia di veder compromesso il suo sapore, così come o’ per’
e o’ muss’, letto senza soluzione di continuità, così, òperòmus, pare
addirittura un latinismo che resta, del tutto indigeribile, bloccato in gola.
Più in generale ho raccolto un distillato di finissime
perle, prezioso per spiegare il benvolere che la città si è guadagnata degli estranei.
E’ cosa nota che il Napoletano, come specie antropologica tipica, si
caratterizza per il fatto di parlare molto e diffusamente sia del suo habitat
naturale di origine che del gruppo etnico di appartenenza. Dato il fenomeno
migratorio persistente e durevole di cui è protagonista, si comprende che abbia
instillato in chiunque lo incroci curiosità di quei luoghi e dei suoi abitanti.
Ci sono posti nel mondo in cui il turista si reca esclusivamente per apprezzare
le bellezze naturali o il patrimonio architettonico e culturale. I nativi
restano sullo sfondo, destando scarso interesse. Si va a New York, ad esempio,
per vedere i grattacieli o la statua delle libertà. I newyorkesi sono quelle
figure in perenne corsa per le strade, che si sbracciano per un taxi o che
affollano la metropolitana -così come dalla narrazione cinematografica- che
nessun visitatore tenterà tuttavia di approcciare.
Napoli è una metropoli di tutt’altro tipo. E’ un palcoscenico e i suoi abitanti, che siano primi attori o
figuranti, hanno tutti un ruolo previsto dal copione.
Il turista che arriva all’ombra del Vesuvio vuole la pizza, il Vesuvio e il
mare ma non in una versione statica. Ne desidera la variante dinamica: quella
ammuinata, chiassosa. Viene per godere del “tiatro” che l’oriundo generosamente
inscena, e in più aspetta, seduto in platea, di essere pungolato dall’artista.
Freme di pendere parte alla commedia, di tastare con dito la vulgata, il
racconto epico che questo popolo rende di se stesso. Il viaggiatore, come fosse a casa propria, parla
agli estranei, chiede indicazioni, consigli. E’ sciolto, disinvolto. Ho visto
persino veneti – l’accento non lasciava adito a dubbi- improvvisare una
socievolezza e un’affabilità del tutto estranee al DNA di quella regione. Il
Napoletano, da perfetto padrone di casa, sollecito si prodiga, fa, appunto, la
sua parte e si guadagna l’applauso di approvazione.
Questo -mi è parso- raccontasse, ieri, il coro chiassoso di voci “forastiere” per
la strada.