domenica 7 febbraio 2016

LE VOCI DI NAPOLI

Confesso che uno dei miei sogni è di tessere una coperta con tutti gli scampoli di conversazione rubati alla gente che incrocio per strada. Di trascrivere, cioè, tutti i mozziconi di frasi che raccolgo mentre sono a passeggio e farne un racconto. Credo che, seppur indirettamente, ne verrebbe un ritratto interessante della città.
A parlare di Napoli talvolta ho timore. Non si riesce mai a stare sul filo della equanimità. Nella perenne indagine volta a trovare il colpevole per un male o l’altro che la affliggono c’è sempre una parte da prendere a favore o contro qualcuno, che sia un partito politico, un amministratore, la borghesia tutta o il popolo minuto, così spesso le conversazioni vanno su di tono e si trasformano in litigi. Un mosaico composto da voci del popolo -immagino- conserverebbe, in quanto semplice trascrizione, un accettabile grado di neutralità.
Cullando la mia fantasticheria, ieri, me ne sono scesa giù in zona decumani.
Mi ero figurata di trovare, passate le feste, una città in disarmo, ritornata in mano agli autoctoni. Invece le strade di Spaccanapoli e dintorni brulicavano ancora di “forestieri”.
Le orecchie, diceva la buonanima di mia nonna, sono fatte per sentire. Le mie hanno fatto naturalmente, in mezzo alla folla di turisti, il loro dovere. Mi sono rallegrata per i pareri entusiastici uditi e naturalmente mi hanno punta nell’orgoglio i commenti fuori luogo di personaggi manifestamente prevenuti, che tradivano una certa villana e supponente arroganza. Non nego, poi, che molte delle parole “avite” sentite dalla bocca di certuni, sotto la fredda coltre di un accento “nordico”, sono risuonate come frecciate ferali al cuore: la sfogliatella vilipesa da una s sonora, privata dalla sh di rito, rischia di veder compromesso il suo sapore, così come o’ per’ e o’ muss’, letto senza soluzione di continuità, così, òperòmus, pare addirittura un latinismo che resta, del tutto indigeribile, bloccato in gola.
Più in generale ho raccolto un distillato di finissime perle, prezioso per spiegare il benvolere che la città si è guadagnata degli estranei. E’ cosa nota che il Napoletano, come specie antropologica tipica, si caratterizza per il fatto di parlare molto e diffusamente sia del suo habitat naturale di origine che del gruppo etnico di appartenenza. Dato il fenomeno migratorio persistente e durevole di cui è protagonista, si comprende che abbia instillato in chiunque lo incroci curiosità di quei luoghi e dei suoi abitanti.
Ci sono posti nel mondo in cui il turista si reca esclusivamente per apprezzare le bellezze naturali o il patrimonio architettonico e culturale. I nativi restano sullo sfondo, destando scarso interesse. Si va a New York, ad esempio, per vedere i grattacieli o la statua delle libertà. I newyorkesi sono quelle figure in perenne corsa per le strade, che si sbracciano per un taxi o che affollano la metropolitana -così come dalla narrazione cinematografica- che nessun visitatore tenterà tuttavia di approcciare.
Napoli è una metropoli di tutt’altro tipo.  E’ un palcoscenico e  i suoi abitanti, che siano primi attori o figuranti, hanno tutti un ruolo previsto dal copione.  
Il turista che arriva all’ombra del Vesuvio vuole la pizza, il Vesuvio e il mare ma non in una versione statica. Ne desidera la variante dinamica: quella ammuinata, chiassosa. Viene per godere del “tiatro” che l’oriundo generosamente inscena, e in più aspetta, seduto in platea, di essere pungolato dall’artista. Freme di pendere parte alla commedia, di tastare con dito la vulgata, il racconto epico che questo popolo rende di se stesso.  Il viaggiatore, come fosse a casa propria, parla agli estranei, chiede indicazioni, consigli. E’ sciolto, disinvolto. Ho visto persino veneti – l’accento non lasciava adito a dubbi- improvvisare una socievolezza e un’affabilità del tutto estranee al DNA di quella regione. Il Napoletano, da perfetto padrone di casa, sollecito si prodiga, fa, appunto, la sua parte e si guadagna l’applauso di approvazione.
Questo -mi è parso- raccontasse, ieri, il coro chiassoso di voci “forastiere” per la strada.

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