Quello che avevo visto non mi aveva
lasciato indifferente. Mi imposi di gettare a quel punto nuove premesse per una
pacifica convivenza. Ma come in ogni inizio di rapporto a due che si
rispetti, nonostante la dichiarazione di volontà, altri fraintendimenti e
scaramucce si frapposero tra noi, rendendo i primi tempi vivaci.
Non avevo la minima idea di come suonasse la lingua turca. Pertanto fui afflitta per giorni da quello stato di sordità e di mutismo che all’estero ci fa reagire anche alle più piccole difficoltà con stizza. Non poter ringraziare o accennare il più elementare saluto mi facevano sentire scostumata e irriconoscente verso le persone che cercavano di aiutarmi. Ero sconsolata, non riuscendo ad avanzare con chiarezza le mie richieste agli agenti immobiliari. Mi sentivo quasi d’essere un loro ostaggio mentre li seguivo, in cerca di una casa decente da prendere in affitto, nei più remoti angoli della città, mentre andavo su e giù per palazzi vecchi e malridotti, mentre visitavo appartamenti da incubo per i quali mi si chiedevano pigioni esorbitanti. Quanto grande è il senso d’impotenza che si prova a non poter insultare un giovanotto che, con faccia da schiaffi, ti chiede 1000 euro per un appartamento vintage anni sessanta, al sesto piano, senza ascensore, con cucina priva di finestra e con in bagno la famigerata “turca”, l’ho sperimentato allora.
Non avevo la minima idea di come suonasse la lingua turca. Pertanto fui afflitta per giorni da quello stato di sordità e di mutismo che all’estero ci fa reagire anche alle più piccole difficoltà con stizza. Non poter ringraziare o accennare il più elementare saluto mi facevano sentire scostumata e irriconoscente verso le persone che cercavano di aiutarmi. Ero sconsolata, non riuscendo ad avanzare con chiarezza le mie richieste agli agenti immobiliari. Mi sentivo quasi d’essere un loro ostaggio mentre li seguivo, in cerca di una casa decente da prendere in affitto, nei più remoti angoli della città, mentre andavo su e giù per palazzi vecchi e malridotti, mentre visitavo appartamenti da incubo per i quali mi si chiedevano pigioni esorbitanti. Quanto grande è il senso d’impotenza che si prova a non poter insultare un giovanotto che, con faccia da schiaffi, ti chiede 1000 euro per un appartamento vintage anni sessanta, al sesto piano, senza ascensore, con cucina priva di finestra e con in bagno la famigerata “turca”, l’ho sperimentato allora.
Poi fu la volta della scuola per le
figlie. A stento ho creduto ai miei occhi ritornando oggi nel posto dov’ è la
scuola italiana: invece d’invecchiare sei addirittura ringiovanita. E’
straordinario il lavoro che hai fatto in questi tre anni per ammodernarti anche
in quel piccolo angolo di città. Non è sopravvissuta traccia dei marciapiedi stretti
e sconnessi dei miei tempi, i nuovi sono spaziosi e comodi. Anche i negozi,
allora botteghe spartane, ora sono moderni e eleganti. Che brutta impressione
mi facesti quando venni per la prima volta nel cuore della vecchia Alsancak per
iscrivere mia figlia Vittoria alla scuola Italiana. Fui assalita da un
crescendo di spiacevoli emozioni. Nell’arco di mezz’ora la lieve agitazione si
trasformò in inquietudine, che a sua volta sublimò in vera e propria
disperazione. Seguendo le indicazioni che mi ero procurata, svoltai dinanzi al
Centro Italiano di cultura. Mi addentrai, così, nel vicoletto dove sorge
l’edificio scolastico, lasciandomi alle spalle la popolatissima e rassicurante Kibris Caddesi, un’enorme strada da noi italiani
ribattezzata “la pedonale” essendo interdetta al traffico dei veicoli. La 1454
Sokak – in Turchia le stradine secondarie sono indicate con una numerazione
progressiva a differenza delle vie principali, alle quali invece sono riservate
i nomi - esordiva con un diroccato, anzi decrepito bagno pubblico per soli
uomini, gestito da due omaccioni che mi ispirarono sul momento una gran
diffidenza ma che, tutte le volte che ce ne fu una qualche necessità, si
dimostrarono verso di noi solerti e protettivi. A seguire c’era un polveroso
negozio di rigattiere nel quale, a dispetto del giuramento di non mettervi mai
piede fatto quel giorno, in seguito ho perfino comprato uno sgabello. Infine,
sul fondo della viuzza si ergeva una palazzina malandata, abitata da un
gruppetto di attempati transessuali molto discreti che, nei locali del piano
terra affacciati sulla strada, proprio dirimpetto al portone della scuola,
gestivano un modesto e riservato salone di parrucchiere.
Potendo decidere diversamente non avrei
portato mia figlia di sette anni in un posto come quello, ma non c’erano altre
scelte. Concentrata in questa riflessione, giunsi innanzi al cancello del “Özel
İtalyan Ana ve İlk okulu” e suonai il campanello. Dalla soglia fece
capolino, circondata dalle consorelle, la suora che dirigeva la scuola invitandomi
a entrare. La considerazione che il muro perimetrale delimitante l’intero
fabbricato, almeno a prima vista, sembrasse inespugnabile fu di conforto.
Passando velocemente in rassegna il gruppetto di religiose, con sollievo,
constatai poi che i loro sorrisi docili, più che di eteree creature mistiche
come mi ero immaginata, tradivano un temperamento da energiche guerriere.
Sarebbero state perfettamente in grado di difendere l’edificio e i suoi
occupanti - pensai- nel caso in cui qualche malintenzionato fosse riuscito a
scavalcare. L’immagine mi strappò addirittura un sorriso. Tuttavia la ventata
di ottimismo spirò solo per una manciata di minuti, fino a quando non misi
piede nella palazzina ottocentesca.
“Come il mulino odora di farina
e la chiesa d'incenso e cera fina,
sa di gesso la scuola.
E' il buon odor che lascia ogni parola
Scritta sulla lavagna
Come un fioretto in mezzo alla campagna.”
Per magia il tempo si era fermato ed io
ero entrata nella scuola di cui parlavano i versi di questa vecchia poesia delle
elementari. Nell’angolo della classe dove fui fatta accomodare, proprio là dove
mi aspettavo che fosse, c’era l’enorme lavagna di legno, con una facciata a
quadretti e l’altra, nascosta sul retro, a righe. Le facevano compagnia i
banchetti a due posti, anch’essi in legno, con il piano a ribalta e tanto di
buco per il calamaio. La palla color latte del lampadario, come mi ero
immaginata, pendeva dal soffitto. Il pavimento –nemmeno a dirlo- era
piastrellato con la classica graniglia nera incorniciata dalla greca scura. La
cartina fisica dell’Italia, infine, occupava la parete alle spalle della cattedra.
Mancava -pensai- solamente la fotografia del re. Anche il refettorio non
riservò sorprese. Vi trovai, infatti, i tavolini tondi di formica verde, circondati
dalle minuscole sedie dello stesso colore. Ero –con tutta evidenza- risucchiata
tra le pagine del libro Cuore. Da un momento all’altro mi sarebbe venuto
incontro il Maestro Perboni insieme al buon Garrone. Terminai la visita con un
nodo alla gola e gli occhi di lacrime. Sperai che le parole di Suor Roberta, la
direttrice, - “Le scuole appaiono tutte
tristi, quando sono vuote, i bambini le rendono allegre e vive, vedrà, vedrà”
- si avverassero.