L'aria era mite e il cielo terso. Mi
parve assolutamente normale. Non avevo preso neppure in considerazione la
possibilità di brutto tempo, e non per via della stagione in cui si era.
Piuttosto perché, nella mia immaginazione, le vicende di Ilio si erano svolte
sempre sotto un cielo azzurro e in un clima mite. Come se la città fosse stata
ammantata di un eterna primavera, come se quel luogo fosse stato immune dalla
mutevolezza delle stagioni. Eppure così non fu. Eppure, i Dardanelli su cui era
appostata, erano un’area ventosa e turbolenta. Fu grazie alle impetuose
raffiche che costringevano le navi a lunghi periodi di sosta nel suo porto che
Troia rinacque più volte dopo ogni conquista e distruzione, tornando a
prosperare.
Rispetto alla gita a Efeso, il
paesaggio circostante anziché enfatizzare la mia esaltazione lavorò a
smorzarla. Non una indicazione stradale, non un insegna annunciavano
l’approssimarsi al luogo sacro, come invece avrei preteso. Stavamo guidando
verso Troia, non un posto qualsiasi, perbacco!
Sotto le ruote della nostra automobile scorrevano le stesse zolle su cui
un tempo cavalcarono Priamo e Ettore e Achille. Il paesaggio su cui si
posavano i nostri occhi si era rispecchiato negli sguardi di Andromaca e Elena
e Cassandra.
Truva, questo è l’attuale nome turco della
località, è un insediamento agricolo abitato da un centinaio di persone. Era un
sacrilegio per me che i contadini profanassero i campi con il loro lavoro e le
loro colture. Un imperdonabile atto di irriverenza, una bestemmia che avvolgeva
in una brutale normalità ciò che era straordinario. Alla fine di una strada
sterrata, che sembrava non condurre in nessun luogo, quasi a sorpresa apparve
il cartello - che solo per un eccesso di benevolenza definirei essenziale- indicante
l’ingresso del sito. Una costruzione rurale, che fungeva al contempo da
locanda, negozio di souvenir e museo, si frapponeva tra noi e gli scavi,
esattamente dove Heinrich Schliemann aveva, al tempo, piantato le tende della
spedizione. Fu tappa obbligata ma felice. La coppia che l’aveva in gestione era
in perfetta sintonia con la selvatichezza dei luoghi. Lei addetta ai fornelli.
Lui guida turistica per accidente di nascita. Germogliato in quel luogo, vi si
era radicato con la stessa caparbietà di una delle erbe selvatiche del
paesaggio. Ma diversamente dagli altri locali, rimasti indifferenti a quella
che non è storia turca, incuriosito dai manipoli di turisti che arrivavano,
aveva cominciato a guardare alla sua terra con gli occhi di un romantico appassionato.
Di quel posto conosceva tutti i segreti e a furia di parlare con i forestieri
padroneggiava un discreto inglese e alla bisogna anche uno stringato ma
comprensibile italiano. Dietro un modestissimo compenso si offrì di farci da
cicerone. Naturalmente accettammo.
Ancora oggi mi mancano le parole per
descrivere la felicità che provai ad esser lì, dove un tempo vissero gli eroi
omerici. Dove Ettore strinse nell’ultimo abbraccio sua moglie e Priamo rivolse
l’accorata preghiera ad Achille.
Scriveva Schliemann: “Confesso che potei a stento dominare la mia
commozione, quando vidi dinanzi a me l'immensa pianura di Troia, la cui
immagine era già apparsa ai sogni della mia prima fanciullezza”.
Confesso: non provai neppure a dominare la
commozione, io. Mi arresi accondiscendente al pianto.