"Giorni selvaggi" di William Finnegan, uscito in Italia il 30 giugno, per la casa editrice 66th&2.nd, traduzione Fiorenza Conte, Mirko Esposito, Stella Sacchini, è il libro vincitore del Pulitzer 2016, già in vetta alle classifiche di vendita in USA.
William Finnegan, giornalista del “New Yorker”, autore di innumerevoli reportage dal mondo su temi “importanti” (guerra, razzismo, criminalità organizzata), con all'attivo ben 5 libri, si dice egli stesso stupito per aver guadagnato il premio non con un “lavoro di natura giornalistica” bensì con un lungo “memoir dal tono molto personale” rimasto per altro in gestazione un ventennio, essendosi nel frattempo data priorità ai saggi e alle centinaia di articoli di più urgente pubblicazione, nella convinzione che la personale storia di “surfer” fosse di scarso interesse e poco appetibile per il pubblico.
Di “ Barbaryans days” si comincia a parlare sulle riviste e i siti specializzati nostrani e già fa capolino anche in qualche classifica. Con le sue 500 pagine è quel che si dice un discreto tomo.
Per aiutarvi a decidere se affrontarlo o meno, l'ho letto per voi.
Già detto che trattasi di un libro autobiografico. Finnegan, oggi sessantenne affermato giornalista, felice marito e padre di una giovane donna, racconta il surf attraverso la sua vita, aiutandoci ad entrare in un mondo per pochi adepti, e potremmo dire, invertendo i termini ma in maniera altrettanto corretta, racconta la sua vita e se stesso attraverso il surf.
Imbattutosi nella tavola da surf da bambino, in California, consolida il rapporto con le onde durante il trasferimento alla Hawaii, dove la famiglia si muove al seguito del padre, per ragioni di lavoro. A venticinque anni la decisione: rincorrere le onde per il mondo. Quasi un giro del globo alla ricerca dell'onda perfetta e di se stesso, in una continua avventura all'insegna del carpe diem, dell'improvvisazione, dello sperimentarsi e dello sperimentare la conoscenza diretta di altre culture, che lo porteranno persino in sud Africa, ad insegnare inglese in una scuola per ragazzi di colore : siamo in piena Apartheid.
Memoir, ribadiamo, non romanzo. Tassello utile per mettere insieme il famoso quadro di informazioni a vantaggio di chi debba decidere l'acquisto/lettura.
Interessante seguire Finnegan e i suoi sodali in posti del mondo che non vedremo facilmente o che negli anni sono cambiati a tal punto che non potremo assaporare mai più nella selvatichezza originale.
Interessante leggere i dettagli tecnici sulle onde. Scoprire che il mare migliore è in inverno, e non in estate. Interessante anche la terminologia del mestiere, che ci porta tra “set”, “blackpoint”,”tubi”,“tunnel”, “goofy”.
Tuttavia c'è qualcosa che mi trattiene dal considerare “ Giorni selvaggi” un libro imprescindibile.
Non lo è sicuramente per quei lettori che oltre il racconto dei fatti cercano narrazioni epiche, coinvolgenti, che giochino sui tasti della gioia o della sofferenza.
Lo stile di Finnegan non è mòno_tòno, quanto piuttosto un paesaggio completamente pianeggiante.
Si esaurisce in una cronaca che mi ha mantenuto costantemente sul filo di un timido, pallido sorriso. Mai una caduta, nel tragico o nel comico. Neppure nei momenti dove mi sarei attesa che si lasciasse andare ad una lacrima o a un moto di frustrazione. Un paratifo e una malaria che scivolano via in poche righe avrebbero soddisfatto meglio la mia curiosità se non fossero state buttate lì così, quasi casualmente. Ed è solo un esempio.
Posso capire la scelta stilistica se penso che il libro è scritto così come Finnegan si è imposto di cavalcare le onde perfette: come fosse la cosa più naturale del mondo, senza enfatizzare ne' successo, ne' sconfitta.
Capisco la scrittura che diventa “surfata”, ma non ne sono entusiasta, con tutti il rispetto per il Pulitzer e per Finnegan