Sono in quella terra di confine che per molti versi è un ritorno all'adolescenza, quando sei mezzo bambino e mezzo adulto e i bambini non ti vogliono a giocare ne' gli adulti a conversare.
Sono in quella fase in cui le persone ti inondano di consigli, continuamente, come fossero terapisti di professione. Ti consigliano come gestire la menopausa, il distacco dai figli, il corpo che cambia, il colore dei capelli, la lunghezza delle gonne. Soprattutto ripetono, allo sfinimento, che devi metterti in gioco e tu fatichi a capire di che gioco parlino.
La scuola pedagogica a cui mia madre mi ha formato è quella dei sensi di colpa, della disistima, quella che imponeva di metterti sempre in discussione. Il risultato è che io, partendo da una perenne autocritica, quei consigli li ascolto.
La scorsa settimana, ad esempio, a Ferrara c'era il festival dell'Internazionale. Un fitto programma, oltre che di incontri, di workshop.
Quindi -ok! mettiamoci in gioco- mi sono detta, mentre compilavo la domanda di partecipazione a "recensione come una delle belle arti".
Scrivo di libri da tempo ma è sempre utile conservare un atteggiamento recettivo e umile. Sicuramente avrei scoperto nuove prospettive grazie alle quali parlarne meglio e sarebbe stato costruttivo sottopormi a verifiche e critiche .
Non ho sottovalutato neppure il lato sociale. Mi piace stare in mezzo alla gente, a maggior ragione tra quelle con cui condivido interessi. Fare nuove amicizie è, in fondo, come cazzeggiare su google: pare una perdita di tempo, invece impari sempre del nuovo.
L'unica cosa che trovo sfiancante è rompere il ghiaccio con i giovani.
Non è che non lo capisca, il loro disagio nel rapportarsi a me. Me lo ricordo quando agli esami, in università, si presentavano "i vecchi" e li evitavo perchè venivano dal giurassico e io invece stavo nel futuro. E immagino anche la situazione da cui sfuggono: la pesantezza dei genitori la vogliono lasciare chiusa a casa, hanno il terrore di trovarsela tra i piedi anche nel loro mondo.
Credetemi, so stare alle regole della socialità intergenerazionale. Ho la consapevolezza di essere sovrabbondante, quindi tendo a parlare poco, a non essere invadente, a non far pesare quante delle "cagate" che sparano con la loro area saccente io le sappia già.
Però, non mi devono provocà.
Primo giorno, fuori dall'aula. Mi faccio coraggio. Mi setto in versione "Palomar" pronta a mordermi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Aspetto il turno nel giro di presentazioni. Per una mia antica battaglia, alla domanda su cosa faccia rispondo sempre e fieramente la casalinga. La ventiquattrenne che conduce la conversazione emette una risatina vacua e proditoriamente incalza di fronte alla mia laconicità chiedendomi se scrivo. Io reticente, schivo anche il secondo tiro. Lei insiste:-" magari un blog?".
Non nego: si, confermo. Sfodera il più ... ( a questo punto io avrei scritto cretino, ma fate voi) dei sorrisi e fa:-" lo sapevo. Là volevo arrivare!".
Là voleva arrivare la piccirella, che una casalinga nel territorio di mezzo che è la mia età, in un workshop di questo tipo, non può che essere una sfigata da blog, come fosse una categoria riconosciuta per legge.
Naturalmente nel corso degli incontri colui che conduceva il laboratorio ha proposto di scrivere una recensione.
Ho letto la mia. Li ho spiazzati tutti.
"Dallo psicanalista un uomo confessa il bisogno di recidere i lacci materni e le radici ebraiche. Una questione di seghe, non solo mentali." Il mio tweet sul lamento di Portnoy li ha stupiti e fatti sorridere.