Sarà che il monologo di Benigni mi ha solleticato certe corde, sarà che ieri con un amico si parlava dell'esigenza di alcuni di noi, scrivendo, di geolocalizzarsi, di evocare sempre e per sempre le proprie radici, sarà che il clima chiama un ricco brodo per tortellini, oggi mi è venuto da pensare alla "minestra riscaldata", a quell'accostamento svilente che usa alla quieta ( chi può dirlo), confortante, routine sessuale di coppia, dove routine può anche essere altro, moltro altro che ripetizione, può certamente sottintendere assiduità di incontri sotto o sopra o di fianco alle coltri, pluriennale, nel segno di un desiderio non sopibile.
E ho capito perché la prospettiva di una carnalità alla "minestra riscaldata" non mi ha mai spaventato. Sono del sud. Da noi minestra è pietanza impossibile, sconosciuta, non praticata. Noi non abbiamo la minestra di fagioli, di ceci, cavolo, di patate. Non coniughiamo, noi, legumi e ortaggi con la pasta, annegandoli in un contesto di acqua, condito con un saggio, ma timido equilibrio, attenti a lasciare ai nubendi un residuo di indipendenza.
Noi facciamo a' pasta 'e fasul', a' past' 'e ciciri, a' past' e cavuliciur', 'a past' 'e patan'. Li leghiamo insieme, i due ingredienti, li azzecchiamo, anzi, dopo averli unti e bisunti, perché non si capisca più dove finisce l'uno e comincia l'altro. E se quello che nasce da questo matrimonio è inebriante per i sensi così, fumante e piccante di peperoncino, appena cucinato, provate ad immaginare che pornografia possa essere, abbruscato in padella, il giorno dopo.
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