sabato 8 febbraio 2020

Si fa presto a dire minestra riscaldata

Sarà che il monologo di Benigni mi ha solleticato certe corde, sarà che ieri con un amico si parlava dell'esigenza di alcuni di noi, scrivendo, di geolocalizzarsi, di evocare sempre e per sempre le proprie radici, sarà che il clima chiama un ricco brodo per tortellini, oggi mi è venuto da pensare alla "minestra riscaldata", a quell'accostamento svilente che usa alla quieta ( chi può dirlo), confortante, routine sessuale di coppia, dove routine può anche essere altro, moltro altro che ripetizione, può certamente sottintendere assiduità di incontri sotto o sopra o di fianco alle coltri, pluriennale, nel segno di un desiderio non sopibile.
E ho capito perché la prospettiva di una carnalità alla "minestra riscaldata" non mi ha mai spaventato. Sono del sud. Da noi minestra è pietanza impossibile, sconosciuta, non praticata. Noi non abbiamo la minestra di fagioli, di ceci, cavolo, di patate. Non coniughiamo, noi, legumi e ortaggi con la pasta, annegandoli in un contesto di acqua, condito con un saggio, ma timido equilibrio, attenti a lasciare ai nubendi un residuo di indipendenza.
Noi facciamo a' pasta 'e fasul', a' past' 'e ciciri, a' past' e cavuliciur', 'a past' 'e patan'. Li leghiamo insieme, i due ingredienti, li azzecchiamo, anzi, dopo averli unti e bisunti, perché non si capisca più dove finisce l'uno e comincia l'altro. E se quello che nasce da questo matrimonio è inebriante per i sensi così, fumante e piccante di peperoncino, appena cucinato, provate ad immaginare che pornografia possa essere, abbruscato in padella, il giorno dopo.

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