venerdì 23 marzo 2018
"Le buone intenzioni" di Kate Tempest
Oggi tocca al primo romanzo dell’inglese Kate Tempest. Non ho resistito, infatti, al proposito di archiviare “Le buone intenzioni”, tradotto per Frassinelli da Simona Vinci, senza esternare pubblicamente la mia delusione per un testo ben al di sotto delle aspettative.
Kate Esther Calvert (Tempest è il nome d’arte scelto in omaggio a Shakespeare) classe 1985, una delle più promettenti poetesse, rapper, spoken word artist e, per finire, autrice teatrale della scena londinese odierna, si è imposta all’attenzione dei lettori italiani con “Let Them Eat Chaos”, poema “scritto per essere letto ad alta voce” pubblicato in Italia da e/o, con la traduzione di Riccardo Duranti.
Mi aspettavo che “Le buone intenzioni” rivelasse lo stesso talento dei versi (la performance è reperibile su you tube), ne ho invece sofferto i troppi ed evidenti difetti, che hanno rallentato la lettura e, più di una volta, messo a rischio il proseguimento.
Il romanzo riprende e amplia le tematiche di “ Let them eat the caos”, cronaca della notte insonne di sette personaggi paradigmatici del contemporaneo. Ne “Le buone intenzioni”, infatti, l’obiettivo dell’autrice è nuovamente puntato su un gruppo di giovani dei sobborghi di Londra, sui quali incombe, trainato dagli esiti estremi del capitalismo, della iperconnessione e della gentrificazione, lo spettro di una solitudine solipsistica.
Eppure qui, nel romanzo, qualcosa non torna. A me pare che “in assetto metrico”, per ora almeno, la Tempest si muova meglio. La concisione dei versi gioca decisamente a suo favore. E’ nella stringatezza verbale, con la quale riesce ad allestire una trama convincente mantenendo sempre a livelli alti climax, ritmo e liricità, che si concretizza la sua virtù naturale, il suo autentico talento. Di contro la spaziosità della prosa si rivela, per la trentaduenne londinese, una trappola. La trama esilissima del romanzo – concentrata di fatto nelle poche pagine del capitolo iniziale e di quello finale- è appesantita da una prolissità che rivela tutta l’immaturità della scrittura, decisamente sottotono rispetto alle ambizioni dell’argomento che si intendeva affrontare.
La prosa della nostra poetessa-rapper patisce uno di vizi più comuni dei principianti: la difficoltà a tagliare, stringare, pulire il sovrabbondante e l’inutile. L’eccessiva minuzia nelle descrizioni, l’abbondanza di dettagli superflui, il fiorire di pleonasmi sono alcune delle conseguenze. La Tempest attenta costantemente all’economia della narrazione. Proprio quando si dispone di un potenzialmente illimitato numero di pagine, sembrerà un paradosso, c’è maggiore bisogno di parsimonia nell’uso delle parole. Ogni eccesso sarà solo causa di distrazione per il lettore e di distruzione per l’intensità della narrazione.
Ultima notazione riguarda l’uso esasperato della similitudine. Nel romanzo di Kate Tempest non solo ogni cosa è connotata, con uno spreco di aggettivi irritante. Non solo ciascuna azione è dettagliata, con pletore di avverbi del tutto irrilevanti se non addirittura dannosi all’economia del testo. Per la prima volta rilevo una nuova patologia degenerativa della scrittura: l'utilizzo compulsivo della similitudine. Là dove non basta un velocemente, un gentilmente, un elegantemente a definire l'atto, l'autrice tira fuori una similitudine. L'esito è un florilegio di accostamenti manieristici e cervellotici quando va bene, grotteschi quando va male. Alla lunga, spalmato su tante pagine, il disturbo sfinisce il lettore, che sopraffatto dal troppo, si accascia stomacato sulle pagine.
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